Come non leggere questo articolo pubblicato da il fatto quotidiano.
La crisi economica internazionale, il calo dei traffici marittimi, la concorrenza spietata dei porti nordafricani, il dumping sociale dei gestori di quegli scali. Tutto vero, ma anche tutto spensieratamente ignorato o sottovalutato per mesi e mesi dal governo italiano. La conseguenza è che ora il porto di Gioia Tauro boccheggia. Dalle 19 di sabato 8 gennaio per 30 ore di fila nessuna nave è attraccata alle sue banchine. Non era mai successo.
Dopo una lunga stagione di record e utili che avevano fatto diventare lo scalo calabrese il più importante del Mediterraneo per il transhipment (trasbordo delle merci da una nave all’altra), con 3 mila occupati compreso l’indotto, per il secondo anno consecutivo la società terminalista che gestisce i traffici, la Contship della famiglia Eckelmann, chiude il bilancio in passivo (quasi 6 milioni di euro secondo i primi dati ufficiosi). Lo spettro della chiusura o comunque del ridimensionamento non è più tanto aleatorio. “Sarebbe una tragedia per il Sud”, commenta Pippo Callipo, l’industriale del tonno, da qualche settimana commissario della Confindustria a Reggio Calabria: “Questo governo Legacentrico ha cancellato le aree depresse del Mezzogiorno”.
I sei portuali che esattamente un anno fa d’intesa con i sindacati salirono per protesta su una gru della banchina, chiesero in modo pressante al governo e alla Regione Calabria di darsi una mossa. Non è successo niente, o quasi. A settembre 2010, per la verità, è stato firmato un mega accordo tra Regione, Ferrovie, ministri dello Sviluppo economico e dei Trasporti. Obiettivo dichiarato: investire la bellezza di 459 milioni di euro per collegare il porto alla ferrovia (il gateway) e realizzare un “distretto logistico con grandi operatori nazionali e internazionali”. Ma sono passati quattro mesi e dopo la firma niente, mentre a Gioia Tauro prende sempre più corpo il sospetto che si sia trattato di un semplice colpo di teatro. Anche perché intanto non vengono realizzati neanche gli interventi minori, che costerebbero solo pochi milioni, ma che sarebbero utilissimi per dare un po’ d’ossigeno allo scalo calabrese. A fianco del terminal ci sono già pronti, per esempio, 40 mila metri quadri di piazzale piastrellati che basterebbe solo recintare e sono già posati e imbullonati tre binari ferroviari nuovi di zecca di 1.100 metri l’uno che basterebbe solo attivare. Ma gli amministratori e le Fs di Mauro Moretti evidentemente hanno la testa da un’altra parte.
In queste condizioni è inevitabile che Gioia Tauro deperisca, mentre i concorrenti nordafricani volano. A Tangeri, per esempio, i governanti marocchini hanno già realizzato quella zona franca che per lo scalo calabrese resta un miraggio, con la cancellazione senza limiti dell’Iva e 15 anni di esenzione per le tasse commerciali e locali. A Gioia, invece, governo e Regione hanno trascurato anche la richiesta di far cambiare progressivamente pelle al porto, trasformandolo da scalo di primo livello, ma concentrato quasi esclusivamente sul transhipment, in punto d’approdo dedito anche al normale import-export. Oggi il porto calabrese movimenta circa 2,8 milioni di Teu (unità di misura dei container), ma appena il 2 per cento è traffico classico di import-export.
Dei tre provvedimenti urgenti richiesti un anno fa, diminuzione delle tasse di ancoraggio, fiscalizzazione del 45 per cento dei contributi previdenziali, abbattimento delle accise da 0,423 a 0,021 al litro sul gasolio usato per la movimentazione delle merci, solo uno è stato attuato, quello sulle tasse di ancoraggio. E in modo che il peso economico è stato scaricato sulle spalle dell’economia portuale, cioè a costo zero per le casse centrali. L’Autorità dello scalo di Gioia ha limato le tasse sugli approdi per non perdere del tutto il passo con Tangeri e Port Said, ma dovendo procedere nell’ambito dei vincoli imposti dalla norma governativa, lo ha fatto tagliando altre voci di bilancio e mettendo da parte ogni velleità di investimento. E ora il presidente Giovanni Grimaldi dice di aver raschiato il fondo del barile e non sa dove trovare altri quattrini per ripetere l’operazione nel 2011.
Il governo di Roma sta alla finestra a guardare come se la faccenda del più grande porto italiano non lo riguardasse. I ministri che dovrebbero occuparsene, quello dei Trasporti, Altero Matteoli, e quello per lo Sviluppo economico (dicastero rimasto in mano a Silvio Berlusconi per mesi nel 2010 dopo le dimissioni di Claudio Scajola), si giustificano ripetendo che la coperta è troppo corta, non ci sono soldi, e dirottano la colpa sul collega dell’Economia, Giulio Tremonti, che da un po’ di tempo è diventato il parafulmine per tutto ciò che il governo non sa o non vuole fare. I soldi, lo sanno tutti, purtroppo non ci sono davvero, ma quale buon padre di famiglia, di fronte alla necessità di fare risparmi, deciderebbe di non comprare più la benzina per andare la mattina al lavoro? Ecco, con Gioia Tauro il governo sta facendo la stessa cosa.
da:Il Fatto quotidiano del 15 gennaio 2011
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/01/15/il-porto-dimenticato/86544/